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Il Salotto: intervista ad Alessandra Racca

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D: Che cosa ti piace quando scrivi una poesia? E che cosa quando ne leggi una?

R: Ci sono tante cose che mi piacciono dello scrivere una poesia, anche se poi trovo che si provino piaceri diversi a seconda del tipo di poesia che si scrive.
Scrivere poesie è quanto di più liberatorio io abbia conosciuto, niente a che vedere con il tormento che mi dà lo scrivere sceneggiature o narrazioni più lunghe, cosa che mi capita e mi è capitata. Credo si tratti di una questione di durata dello sforzo creativo e di libertà. Non puoi scrivere una poesia a comando e dunque il processo di scrittura è legato a ritmi e necessità del tutto genuini, personali. Scrivo poesia perché ho bisogno di scrivere poesia - una necessità psichica, emotiva - e i bisogni soddisfatti danno piacere, si sa.
Ci sono dei piaceri prima, dopo, durante lo scrivere poesia: per me si tratta sempre di una delizia.
Quando ho l'intuizione, lo stimolo a scrivere una poesia, sento una specie di pizzicorino interno, una sorta di scintilla del pensiero che però è anche un'emozione, un piacere intellettuale ed emotivo insieme. Può nascere tutto da un verso, oppure un'immagine, o un ritmo, un concetto, ma ciascuna di queste cose è sempre legata all'emozione, una specie di intuizione che "lì c'è qualcosa di buono".
Mentre scrivo, c'è soprattutto il piacere della scoperta: piano piano davanti a te si dipana un pensiero, un concetto, un qualcosa che ti vagava dentro da ore, giorni, a volte da mesi e che finalmente trova la forma giusta per palesarsi, uscire. E poi c'è il piacere del ritmo, del suono, una sorta di litania che ti culla mentre scrivi e che lega misteriosamente senso, immagine e suono.
Subito dopo aver scritto, provo un senso di leggerezza, come se mente e corpo si fossero liberati. La poesia è uno degli strumenti che il mio cervello utilizza per farmi star bene.
La lettura pubblica, invece, mi dà un po' più di ansia. Qui si entra in un campo che gli attori conoscono bene. La lettura pubblica, come tutti i live, è pericolosissima. Quando non riesci a creare un buon legame con il pubblico perdi energia in maniera pazzesca. Quando una lettura pubblica non funziona, cioè quando non si crea il necessario ponte comunicativo ed empatico con il pubblico, sei uno che sta lottando contro tutti, la tua energia si disperde, i tuoi versi diventano improvvisamente pesanti e muti e ti trovi immerso in una solitudine piuttosto feroce. L'esperienza in questo aiuta. Per leggere in pubblico credo ognuno debba trovare la propria "scintillanza", quel particolare modo di porgere le parole, la propria persona, i propri pensieri, di trovare la via che conduce agli altri e che consente loro di entrare un po' in te. C'è sicuramente nel live una componente sensuale che mi appaga. A volte le letture ben riuscite mi ricordano il volo degli uccelli, quando vanno tutti insieme e creano forme, nel cielo. Se questa forma di magia ti riesce è bellissimo. Se non ti riesce è tragico e ridicolo.
Il piacere che a me personalmente viene da una lettura ben riuscita è questa sorta di iper comunicazione che si crea con altri esseri umani. Trovi comprensione ai tuoi pensieri più profondi. E poi mi piace il suono della parola poetica, sia quando a leggere sono io, sia quando a farlo sono altri.
Se invece (e mi viene il dubbio ora) mi stavi chiedendo che cosa provo quando leggo una poesia di qualcun altro, la risposta è questa: se la poesia mi piace, sento il piacere di una rivelazione, di una connessione con qualcosa di profondo e umano che non riguarda solo me, ma molti altri o tutti. E, anche in questo caso, emerge la piacevolezza del ritmo della parola, che è una cosa che da sempre mi affascina, tanto che, spesso, le poesie che amo le leggo ad alta voce, più volte, come una preghiera. Direi in effetti che per me leggere poesia è una forma di preghiera e di meditazione, un modo per connettersi alle emozioni e ai pensieri.

D: Partecipi a poetry slam e ne organizzi pure - penso a Poeti in Lizza, che hai organizzato insieme a Catalano e Bravuomo a Torino e ora stai esportando anche a Milano. C'è chi vede nello slam una manifestazione cabarettistica ed effimera, o al massimo un'esibizione adatta più ai rapper che ai poeti se così si può dire veri e propri. Tu che ne pensi?

R: Penso che la poesia abbia una forte componente orale che secondo me la formula dello slam supporta benissimo. Lo slam raccoglie i difetti del mondo della poesia: ci sono un sacco di cattivi poeti in Italia e la stessa percentuale si ritrova negli slam. Quella che semmai è una caratteristica "ostica" dello slam è la competizione, che c'è. Quanto la competizione faccia bene alla poesia non l'ho ancora capito. Sicuramente aiuta il pubblico, lo rende più attento e partecipe, mostra in maniera più chiara il livello di "pericolosità" di una esibizione live. La gara dice chiaramente a tutti "ragazzi, qui ci si gioca qualcosa" e ho idea che responsabilizzi in modo positivo pubblico e poeti.
Però ci sono ancora un sacco di cose dello slam che voglio capire. Organizzare uno slam è per me un'occasione, una via di sperimentazione. Ho incontrato per caso lo slam, lo trovo un "oggetto" strano, interessante e con grandi potenzialità e limiti. Ti va di rifarmi la stessa domanda fra un paio di anni?

D: Si parla spesso della poesia femminile, come se fosse un genere (come, ad esempio, c'è la poesia epica, la poesia comica, così anche la poesia femminile). È un modo per valorizzarla, questo, o di ghettizzarla? E ci sono, secondo te, altri fattori che creano differenze più produttive di questa? Come, non so, l'età e l'origine geografica?

R: Ciò che si è plasma il modo in cui si fa poesia.
Essere donna e uomo influenza ciò che si scrive, così come essere italiani o giapponesi, anziani o giovanissimi. Ma non credo che sia questo il punto, insomma, questa è un'ovvietà: siamo diversi, scriviamo in maniera diversa.
Eppure quando si parla della scrittura femminile mi pare si parli spesso di una scrittura non-maschile. C'è la regola, che è il maschio, e poi la deviazione alla regola, che è quello che caratterizza la donna.
Questo mi pare un problema grosso.
Il mondo dela poesia non è diverso da tutti gli altri: la questione è sempre quella dei rapporti di potere. Le donne pagano ancora uno scotto di secoli, di poteri che sono in mano agli uomini e di categorie mentali in base alle quali si analizzano le cose che sono maschili se non, spesso, maschiliste.
Come molte penso che ci sia la necessità al pensiero elaborato dalle donne venga riconosciuta una sua indipendenza, una sua legittimità in quanto tale e non in quanto "diverso da quello dell'uomo". Se, allora, si parla della poesia femminile in questo senso come di "un genere", riconoscendo ad essa specificità e valore, allora credo che le si renda un giusto servizio. Però la differenza fra "riconoscimento della specificità" e ghettizzazione è ancora molto labile e credo che le donne stesse debbano ancora elaborare "modi di porgere la loro poesia", di interpretarla, di gestire gli spazi e il potere che via via acquisiscono.

D: Leggendo le tue poesie si direbbe che l'anafora sia la tua figura retorica per eccellenza: penso a Io sono quella che scrive, Architettura corporea: preghiera, Quel che sa il botanico ottimista e pure poeta, Scuola di poesia, La storia della mia vita. Che cosa ti piace di questo espediente retorico?

R: Innanzitutto il ritmo. Amo la cadenza che dà a un testo la ripetizione di un elemento.
Ripetere un concetto espresso con la medesima formula verbale dà un ritmo preciso, ma soprattutto ti permette di indagare quel concetto in maniera sempre più dettagliata e profonda. Si tratta sempre di quel concetto, ma ogni volta che lo ripeti e lo accosti ad elementi diversi, lo indaghi in maniera differente: approfondendo, variando, sottoponendo all'attenzione aspetti particolari o laterali che lo riguardano.
Ripetere una stessa parola o un pezzo di frase ha qualcosa di infantile, crea una sorta di nenia, una gabbia rassicurante che poi però ti permette di procedere in direzioni diverse, inaspettate, di fare accostamenti insoliti e divertenti.
È una figura retorica che riflette molto del mio modo di stare al mondo. Il bisogno di elementi stabili che mi tranquillizzino in modo da poter procedere all'esplorazione libera di tutto il resto. Un vincolo attorno al quale muovermi liberamente.

D: Nell'immaginario dei testi torna spesso il mondo della pubblicità (il sapone Dove, i coltelli Miracle Blade, il Mulino Bianco): si tratta di un serbatoio (ovviamente pop) al quale attingere o un limite del nostro orizzonte culturale - e quindi da te citato ed evocato per antifrasi?

R: Sono nata nel '79, sono cresciuta con la televisione commerciale e le pubblicità, i cartoon, i telefilm, fanno parte del mio immaginario, mi hanno affascinata e tutt'ora mi affascinano. Ne penso tutto il bene e tutto il male possibile. La pubblicità è ovunque e noi siamo costantemente bombardati dallo stimolo all'acquisto e al consumo. Soffro, come molti, della terribile banalità che si cela dietro il mondo scintillante del marketing, dell'impulso disperato al consumo che c'è in tutti noi, e al contempo sono attratta da tutto ciò. Sono attratta dalle merci, dalla pubblicità, perchè sono parte integrante del mondo conteporaneo, sono una metafora pazzesca e soprattutto alcuni prodotti e alcune pubblicità sono elementi conosciuti da tutti: tutti percepiamo immediatamente il mondo che evocano. Se dico Mulino Bianco evoco un certo tipo di immaginario di riferimento e mi diverte utilizzarlo nelle poesie, ma soprattutto non potrei farne a meno perchè il mondo nel quale sono immersa è fatto anche di queste cose.

D: Di recente ho letto una poesia di Monica Seksic che si intitola Dissertazione sulla V e sulla G, e mi ha fatto pensare allo stile e all'argomento della tua Canzone per la mia v: vagina vagina vagina vagina vagina vagina. Ho notato a Torino (cito Catalano, Bravuomo, Molinaro, Graziano), una corrente di poesia (in parte orale, apparentemente volgare, fondamentalmente romantica), che ha quasi la coerenza di un movimento: è così o ho preso un abbaglio?

R: C'è sicuramente un influenzarsi reciproco, soprattutto con coloro che conosco da più tempo - penso a Bravuomo e a Catalano, ma anche a Carlo Molinaro - e con i quali collaboro nell'organizzazione di eventi e letture comuni. Gli altri li conosco da poco, ma non è da escludere che tutti noi si sia "respirata" un'aria comune, che traspare nella comunanza di stili e di tematiche. Sono senz'altro contenta di ciò e sono molto curiosa di vedere cosa sta accadendo e cosa accadrà a Torino in ambito poetico.

D: Ci leggi una tua poesia?

R: Senz'altro. Venite a trovarmi o vengo io da voi?

Intervista a cura di Alfonso M. Petrosino