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Il Salotto - Dialogo sulla poesia e sulla morte, con Giulio Mozzi

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a cura di Dario Orphée

Vorrei iniziare con una riflessione sulla poesia. Giorni fa, mi sono avvicinato ad una bancarella che esponeva il cartello: “tutto a un euro”. Niente di meglio per me (che vivo di scrittura) che libri sottoprezzo! Cercando, tra testi mangiucchiati dalle tarme o anneriti dalla muffa, ho incontrato Il culto dei morti nell’Italia contemporanea. Leggendo il titolo, pensavo si trattasse di una ricerca antropologica; aprendolo, però, ho notato i versi. Mi sono chiesto: perché, secondo lei, l’Italia contemporanea (alla quale allude) riserva questo “trattamento” alla poesia?
Se lo domandano in tanti, almeno da trent’anni in qua. Io volterei la domanda: perché la poesia, in Italia, oggi, (anzi: da trent’anni almeno), si sottrae così alla lettura? Non mi sembra che si scriva molta poesia comprensibile, non dico a prima vista, ma senza strenui sforzi e sussidi di letture critiche. Ci sarà una ragione se Alda Merini è diventata popolare (in tarda età), se Umberto Fiori e Fabio Pusterla (entrambi, non a caso, pubblicati da Marcos y Marcos: un editore che evidentemente ha un’idea di poesia) riescono ad avere un loro pubblico, non enorme ma consistente, semplicemente affezionato; e altri no. Non sono un partigiano della “letteratura facile”, tutt’altro. Ma bisogna pur accettare l’idea che, se si scrivono cose molto difficili da leggere, i lettori saranno pochi.

Si legge poco, ci sono troppi poeti incomprensibili, la cui incomprensibilità è legata -penso- alla scarsa lettura, prolificano come batteri le poesie nella rete (lo ritengo una fortuna, poiché non si spreca carta), avanza l’arte popolare, che solamente a pronunciarla dà i brividi, e altre belle notizie. È un’agonia, o si è smarrito il senso del gusto?
Ma non lo so, se “è un’agonia” o “si è smarrito il senso del gusto”! Sono in difficoltà di fronte ad affermazioni così generali da essere generiche. Di fatto, mi pare che l’ultima poesia veramente “popolare” in Italia sia stata quella in qualche modo “patriottica” (ancora pochi anni fa i programmi scolastici raccomandavano la lettura di Carducci proprio per le sue qualità patriottiche): fino a quella, patriottica a suo modo, del primo Ungaretti. Poi, basta; fino all’Alda Merini. Perché la Merini è diventata così popolare? Secondo me a causa della sua storia personale, che ha commosso molti, e a causa della sua follia. Alda Merini ha incarnato quasi alla perfezione un’immagine popolare di poeta: folle, travolto dalla vita, reietto, e così via. E quindi, come tutti i “casi umani”, ha avuto un certo successo. (Questo non è un discorso sul valore della sua poesia, intendiamoci). Ma non possiamo proporre ai poeti di diventare “casi umani”.

Entriamo nel Culto. Nelle note lei dichiara che non avrebbe mai iniziato il suo poemetto se non avesse letto su “Il Manifesto” del sei febbraio del 1998 un articolo di Marco D’Eramo. In particolare, cosa lo ha ispirato?
In quell’articolo D’Eramo rifletteva su una pratica assai diffusa: quella di costruire piccoli, precari “altari” nei luoghi dove persone care sono morte. Mazzi di fiori legati ai paracarri, biglietti o semplici oggetti-ricordo ai piedi dell’albero contro il quale l’amico si schiantò; e così via. Io già mi ero interessato a queste pratiche: ad esempio, avevo fotografato dozzine e dozzine di questi “altari”. L’articolo di D’Eramo mi fece riflettere; e di lì a poco cominciai a scrivere il “Culto”.

Rifacendomi al testo, leggo: bastoncini di bambù, la voce registrata di Moana Pozzi, le lapidi sulle strade, le bare a stelle e strisce, la cronaca nera… Siamo proprio ossessionati dalla morte?
Quel libro è dedicato alla morte, e di quello parla. D’altra parte, morire è una cosa che capita a tutti: vale dunque la pena di pensarci.

Il fatto è che facciamo di tutto per non pensarci. Anzi, la mente umana e la vita pare che siano state costruite in modo da “obliare” il nostro epilogo. Contraddittoriamente, invece, istituiamo giorni, fissiamo lapidi, ecc., per… non saprei bene per quale motivo. E, oltretutto, fondiamo “moralità”, un tentativo estremo per appropriarci della vita che ci sfugge. Mai puntiamo lo sguardo a ciò che importa veramente. Perché? Forse perché rischieremmo di impazzire (o di scoprire quello che non dovremmo). Lei che ci ha pensato, tanto da scrivere un poemetto, che in alcune parti trovo pieno di sofferenza, potrebbe spiegarmi cos’è questa “cosa che capita a tutti”, come lei la definisce?
Secondo me non è vero che “mai puntiamo lo sguardo a ciò che importa veramente”: e quindi non saprei rispondere a quel “Perché?”. La cosa che capita a tutti è la morte: e no, no so spiegare cos’è.

“Quando ti comanda il sesso/tu non mi ami più, lo so” (I. Vari tipi di eternità: esempi e riflessioni, pag. 12). Questi versi, se posso permettermi di strapparli dal contesto e usarli qui, mi hanno presentato in parole un’idea che non riuscivo a concretizzare. Aiutare è uno dei tanti compiti dei poeti. Vado alla domanda: quello che noi facciamo per piacere, in fondo, non è che una lotta contro la morte? Il piacere -vorrei essere ironico- è un pretesto?
Rispondo citando un passaggio da un mio racconto del 1997: “Tutte quelle che noi crediamo siano le immagini della morte sono in verità le immagini della continuazione della vita. Le vere immagini della morte sono quelle che noi crediamo essere le immagini della vita. L’attività del desiderio sessuale ci dà la sensazione di essere vivi e invece noi siamo animali che si riproducono perché siamo mortali. Noi pensiamo di godere del nostro sesso come di un puro piacere distaccato dalla riproduzione perché vogliamo dimenticarci della nostra morte che è così vicina, è una formica che cammina sulla nostra schiena”. Da “Splatter (breve)”, in “Il male naturale”, Mondadori 1998, nuova edizione Laurana 2011, p. 65.

L’ultima sezione del poemetto è un “Lieto fine”. Lei, specchiandosi, sa di non essere l’immagine sul vetro; dichiara di non avere identità; è lieto. Cosa ha scoperto?
Che non c’è niente di male a morire.